Rete sociale, volontariato e tradizione lo stile informale del welfare italiano

Territorio // Ascolto // Competenze

Rete sociale, volontariato e tradizione lo stile informale del welfare italiano

18 Settembre 2018 Approfondimenti 0

Di Giulio Santagata e Luigi Scarola
Fonte: la Repubblica, 27 giugno 2016

L’impresa sociale si presenta oggi come un asset proprio e distinto dell’economia italiana. Un asset capace non solo di rappresentare la sensibilità morale e civile del Paese, ma anche di esprimere un modo innovativo di ‘fare economia’. In Italia si contano 301.000 istituzioni no profit, quasi 5 milioni di volontari, ma anche 680.000 addetti con una crescita di quasi il 40% in dieci anni. A questi numeri bisogna aggiungere oltre 90.000 imprese for profit che operano nei settori dell’economia sociale.

Siamo di fatto di fronte all’evoluzione di un’area, che eravamo abituati a considerare solo sociale, in una vera e propria sfera dell’economia del Paese. Questo è il frutto soprattutto di una favorevole convergenza, che potrebbe definirsi ‘casuale’, di due forze: una consolidata, robusta e strutturata rete socio-assistenziale e del volontariato, sedimentata negli anni e una profonda tradizione di imprenditoria socialmente responsabile. Due elementi che quando integrati divengono punti di unicità nel panorama mondiale: un modello informale di welfareche ci siamo accorti essere stato spesso fonte di ispirazione di policy all’estero. Forze endemiche nella nostra cultura nazionale, che non hanno tuttavia avuto il vigore di affermare con chiara determinazione una via italiana allo sviluppo.

L’interpretazione di economia sociale è sempre stata spinta su un piano dicotomico, piuttosto che essere il terreno proprio della integrazione e un motore di sviluppo economico e sociale. Società profit versus società no profit, etica versus speculazione, tutela dell’ambiente, della salute versus crescita e profitto, etica del lavoro versus produttività… E nei dualismi si sono insinuati i meccanismi di chiusura e di autoreferenzialità, a volte di conflitto, spesso di crescita frenata.

Non si è riusciti a codificare un percorso strutturato in grado di valorizzare la forza della ‘contaminazione’, perdendo un vantaggio competitivo di enorme portata in un mondo che sta velocemente acquisendo con la consapevolezza del valore economico dei comportamenti etici del fare impresa.

Oggi l’impresa (profit o no profit) non può più essere chiusa in se stessa, ma richiede reti di relazionali forti, sistemi strutturati di accesso alla conoscenza, un contesto ambientale favorevole. In altri termini, l’impresa ha bisogno di un territorio di qualità che la alimenti, la supporti e sviluppi le condizioni sociali e di comunità che le permettano di affrontare le sfide economiche.

Durante le due recenti fasi recessive le imprese che meglio hanno reagito sono proprio quelle che hanno saputo, tra l’altro, rafforzare l’interlocuzione con il territorio (che quasi sempre è la vera essenza del ‘Made in Italy’), mantenendone saldo il legame che spesso si è tradotto in una tenuta del tessuto sociale. Il valore di territorio che è stato dapprima all’interno dei recinti del tradizionale terzo settore sta di fatto rapidamente evolvendo e anche le profittornano a rendersi conto che affrontare i temi e problemi della società e del territorio rappresenta non solo un ‘risarcimento dovuto’, ma un ambito di vero e proprio supporto al business.

L’impresa competitiva e moderna diviene allora soggetto centrale per la sostenibilità stessa dello sviluppo. Inclusione e coesione sociale diventano a tutti gli effetti elementi di competitività. Quanto pesano nella scelta di un partner commerciale il sistema valoriale, l’attenzione verso il territorio e le tematiche sociali? A ben guardare ciò che sta succedendo nei paesi anglosassoni, molto o forse moltissimo. Vi è una rincorsa verso l’affermazione di impresa sostenibile dove al profitto corrisponde un fattivo e valutabile guadagno sociale. Tutte le big corporation(e non solo) stanno oramai prioritariamente investendo in questa direzione.

Il legislatore italiano, con un approccio opportunamente proattivo, sta fornendo gli strumenti di promozione dell’’ibridazione’. La riforma del terzo settore da un lato e il riconoscimento delle Società Benefit dall’altro, vanno in questa direzione. Il 2016 si è, infatti, aperto con una importante novità. Con la legge di stabilità del 2015 si è dato il via alle Società Benefit, mutuando una formula di successo avviata nel 2010 negli USA. Il legislatore le definisce come soggetti ‘che nell’esercizio di una attività economica, oltre allo scopo di dividerne gli utili, perseguono una o più finalità di beneficio comune e operano in modo responsabile, sostenibile e trasparente nei confronti di persone, comunità, territori e ambiente, beni ed attività culturali e sociali, enti e associazioni ed altri portatori di interesse’. L’Italia arriva prima a livello europeo, nel dare una forma giuridica ad un equilibrio possibile tra profitto e benessere collettivo, ovvero a ciò che sessant’anni fa Adriano Olivetti aveva teorizzato e cercato di applicare in fabbrica e sul territorio.

Il nostro sistema economico e sociale si trova dunque pronto a riscoprire il ‘valore della contaminazione’ per la crescita. Serve tuttavia che le strutture del no profitassumano sempre più caratteristiche manageriali, finanziarie, operative proprie delle imprese profite che le imprese commerciali consolidino la consapevolezza del rapporto con il territorio come asset di sviluppo. Serve farlo in maniera strutturata, laddove le ‘contaminazioni’ siano riconosciute e incentivate.

Serve che le imprese si dotino di adeguati strumenti e metodologie per i propri percorsi sociali, monitorarne l’impatto e per diffondere all’interno delle organizzazioni di impresa la cultura dell’azione economica etica che affianchi alla ricerca del profitto, l’impegno sociale. I tempi impongono che i percorsi siano tracciati con politiche chiare che premino la trasparenza e rendano evidente l’operato.

L’Italia possiede tutte le caratteristiche per essere finalmente leaderin una corrente che è destinata a cambiare il modo di fare impresa.