Civiltà di cantiere
di Giulio Santagata
La rigenerazione non può prescindere dal territorio Se è vero che le calamità naturali sono per tutti un momento di emergenza, non si può comunque pensare di operare ovunque allo stesso modo. Esistono delle differenze storico-geografiche da analizzare per riflettere sulla ricostruzione. Le scosse sismiche dello scorso anno hanno colpito un’area molto fragile del Paese, sia dal punto di vista demografico che economico e che già era stata interessata, salvo alcune eccezioni, da importanti fenomeni di spopolamento e invecchiamento della popolazione.
Si tratta di un territorio vasto che abbraccia quattro regioni, composto da piccoli e piccolissimi comuni. Dei 140 municipi coinvolti, la gran parte è sotto i 5mila abitanti e molti non raggiungono i mille residenti. Un territorio per lo più collinare e scarsamente popolato che, pur considerando i 4 capoluoghi di provincia (Ascoli, Teramo, Rieti e Macerata), ha una densità media di 71 abitanti per kmq, contro una media nazionale di 200 abitanti per Kmq.
Se vogliamo provare a dare una lettura generale e di funzione si potrebbe affermare, con qualche eccezione, che vi sono due gruppi di comuni. Il primo gruppo è costituito da comuni con funzioni residenziali. Rientrano nella casistica i centri più popolosi, limitrofi alle città più grandi, in cui oltre la metà dei residenti, secondo i dati Istat, si sposta quotidianamente per motivi di studio o di lavoro. Poi vi è un secondo gruppo a cui si ascrivono i comuni dei Monti Sibillini (tra Marche e Umbria) o della zona di confine tra Marche, Abruzzo e Lazio, caratterizzati da un’elevatissima incidenza di seconde case, anche superiore al 60 per cento (dato medio nazionale: 22,7 per cento).
Per entrambe le tipologie si tratta di un territorio mediamente povero in cui i livelli di reddito risultano mediamente al di sotto degli standard nazionali (in 47 comuni il reddito medio per contribuente non raggiunge i 15.000€ annui) e con una bassissima densità imprenditoriale (il numero di unità locali per kmq risulta pari a 5,9, contro le 15,6 segnato a livello nazionale). Un’area in cui la popolazione anziana ha un’incidenza di gran lunga superiore alla media nazionale. In oltre 100 dei comuni colpiti dal sisma per ogni under 14 si contano due over 65.
Appare evidente che rilanciare economicamente l’area significa, quindi, intervenire su un paziente già malato dopo un evento acuto.
Una situazione complessa e radicalmente diversa da quella dei territori emiliani colpiti duramente dal precedente sisma del 2012. Seppur certo che ogni calamità porti con sé le cicatrici profonde e insanabili di un dramma umano, dal punto di vista della “ricostruzione economica” si trattava, in Emilia Romagna, di intervenire con l’obiettivo di ripristinare uno stato di fatto. In quel caso era stata coinvolta un’area che genera il 2 per cento del PIL nazionale, con un sistema produttivo fatto di oltre 66.000 unità locali; territori con una profonda e radicata specializzazione economico-produttiva che va dalle ceramiche, al biomedicale, dalla meccanica all’agroalimentare.
Allora si decise, oltre alla indiscutibile esigenza di gestione delle emergenze, di dare priorità alle scuole e alle attività produttive proprio perché potessero essere il traino di un tentativo di ritorno alla “normalità”. Un’attenta programmazione e una positiva e produttiva interlocuzione con gli Enti locali (peraltro ancora in essere) hanno dato dei risultati tangibili sin da subito. Molte aziende duramente colpite hanno ripreso la produzione, quasi senza soluzione di continuità, e hanno anche colto (nella tragedia) l’occasione per innovare capannoni, macchinari, impianti e cicli produttivi.
Il sisma del Centro Italia ha ferito invece un’area vasta con un tessuto debole, frammentato e anche molto diversificato, fatta prevalentemente di piccoli e piccolissimi centri e il rischio di spopolamento, a un anno dal sisma, risulta forte e concreto. È questa la minaccia più insidiosa da contrastare con il massimo impegno. L’abbandono dei territori comprometterebbe alla base qualsiasi intervento di ricostruzione e il ripopolamento diverrebbe operazione quasi impossibile.
Resta evidente che, in una graduatoria di priorità, la gestione dell’emergenza debba rivestire una posizione di primo piano, ed è altrettanto vero che, se alla fase di ricostruzione materiale non si accompagna un altrettanto idoneo processo di ricostruzione delle linee di sviluppo economico su cui incardinare i percorsi futuri, gli sforzi risulterebbero di fatto inutili nel medio termine. Intervenire tramite progetti di sviluppo implica costruire interventi che rafforzino la struttura economico sociale, in grado di fare leva sulle risorse distintive presenti nelle diverse aree e attrarre investimenti da altre zone del Paese e non solo.
Laddove non esistano “vocazioni economiche” forti e in grado di dettare i ritmi della ricostruzione, si rende necessario costruire progetti concreti, magari di contenute dimensioni, ma in grado di alimentare per prossimità uno spirito di impresa e accrescere l’occupazione. Progetti di investimento mirati e in linea con le potenzialità locali, in grado di gemmare e alimentare il debole tessuto economico, anche nel breve periodo.
È difficile ad oggi immaginare interventi che da soli possano essere in grado di avviare un’epoca di rilancio. La loro ricerca o la definizione di complesse strategie di sviluppo rischiano di essere un mero esercizio intellettuale. Mancano i tempi, le risorse e forse anche le condizioni di base per disegnare strutturati processi su cui impiantare sentieri di crescita.
È piuttosto indispensabile lavorare per il realizzabile a breve, certamente con l’idea della sedimentazione nel lungo periodo e nel rispetto dei vincoli e delle potenzialità locali, ma evitando la trappola della ricerca di “vision” troppo complesse e futuribili. Riorganizzazione amministrativa dei comuni (troppo piccoli per poter far fronte a sfide così complicate), investimenti produttivi, costruzione di linee di attività legate alle trasformazioni demografiche e sociali, sono solo alcuni dei cantieri da aprire e presidiare.