Lavoro più povero dopo la grande crisi
Autore: Marco Panara
Fonte: Affari & Finanza
Il primo atto economico del nuovo governo riguarda il mercato del lavoro e rende più stringenti le norme per i contratti a termine e più costosi i licenziamenti dei lavoratori a tempo indeterminato. Il provvedimento diminuisce la flessibilità ma non affronta i problemi strutturali del mercato del lavoro. Il problema dei contratti a termine non è tanto nei numeri (inferiori alla media europea), che riguardano anche la flessibilità necessaria nei picchi e nelle attività stagionali.
È soprattutto nelle distorsioni che crea nella fase di accesso dei giovani al mondo del lavoro rendendo abnormemente lungo il periodo dell’instabilità. Per converso l’aumento del costo potenziale dei licenziamenti è un disincentivo alle assunzioni a tempo indeterminato.
La realtà con la quale ci si deve misurare è una mappa del lavoro che nei dieci anni della grande crisi in Italia è cambiata profondamente.
La mappa
Il lavoro che manca all’1,4 milioni di disoccupati in più rispetto al 2007 che sono il problema numero uno del paese ha nome e cognome: è la somma dei 540 mila posti di lavoro distrutti negli ultimi dieci anni dalla crisi delle costruzioni, dei 350 mila cancellati da ristrutturazioni industriali e chiusura delle fabbriche, dei 170 mila eliminati dal blocco del turnover nelle pubbliche amministrazioni e dei 530 mila piccoli imprenditori, commercianti, artigiani, autonomi di varia natura ai quali la crisi, l’evoluzione della distribuzione e la fine dei contratti a progetto ha cambiato il destino. Se confrontiamo l’Italia del 2007, l’ultimo anno prima della crisi, e quella del 2017, scopriamo che il mondo del lavoro ha una mappa diversa, per certi versi più moderna e per altri ancora colpevolmente arcaica.
La popolazione
In questi dieci anni la popolazione (ufficiale) è aumentata di circa 670 mila unità, da 59,13 a 59,8 milioni, un aumento che nell’Italia che non fa più figli corrisponde al saldo tra i due milioni di immigrati in più (sono passati da tre a cinque milioni) e il milione e 300 mila italiani che hanno scelto di trasferirsi all’estero (da 3,6 a 4,9 milioni): un saldo demografico positivo ma un saldo negativo sul piano della scolarizzazione poiché un terzo degli emigrati italiani sono laureati e molto numerosi sono i diplomati, mentre i nuovi arrivati hanno livelli di scolarizzazione più bassi.
A fronte dei 670 mila abitanti in più, il numero di coloro in età di lavoro sono aumentati di 1,4 milioni di unità (gli immigrati sono prevalentemente adulti) da 38,4 a 39,8 milioni, e soprattutto è cambiata in maniera interessante la struttura: è aumentato infatti di un milione di persone (da 22,5 a 23,5 milioni) il numero degli occupati, di 1,4 milioni il numero dei disoccupati (da 1,5 a 2,9 milioni), mentre è diminuito di un milione (da 14,4 a 13,4 milioni) il numero degli inattivi. C’è una strana simmetria tra questi numeri, con il milione di occupati in più che ha assorbito il milione di inattivi in meno e il milione e quattrocentomila persone in più in età di lavoro finito tutto tra le file dei disoccupati. Non si tratta delle stesse persone, è più probabile che almeno una parte degli ex inattivi siano tra coloro in cerca di lavoro e una parte dei disoccupati abbia trovato una occupazione, ma in termini di flussi l’esito di questi dieci anni durissimi per la società italiana e la sua economia è che se si è ridotto in misura significativa il numero degli inattivi, che è un dato positivo, a fine dicembre 2017 mancavano però all’appello 500 mila occupati perché dopo il terribile decennio il bilancio (la somma dei disoccupati e degli inattivi) fosse almeno in pareggio. Nei primi cinque mesi del 2018 tuttavia il trend di crescita dell’occupazione è continuato e questo numero si è dimezzato.
Il crollo degli autonomi
La prima eredità lasciata dalla crisi è quindi l’aumento del numero di persone che pur in età di lavoro non lo cercano o non lo trovano. La seconda, assai più sfaccettata, è nella struttura del mondo del lavoro, all’interno del quale i due passaggi più rilevanti sono la diminuzione dei lavoratori indipendenti e l’impoverimento di quelli dipendenti.
La discesa del numero dei lavoratori autonomi in realtà precede la crisi. Come ha documentato il sociologo del lavoro Emilio Reyneri, il calo è cominciato nel 2004, quattro anni prima della crisi, ed è continuato anche nel 2017, quando la recessione era ormai alle spalle: i lavoratori autonomi erano 6,3 milioni nel 2004, poco meno di 6 milioni nel 2007, 5,3 milioni alla fine del 2017. Può essere un segno di modernizzazione dell’economia italiana, che aveva una quota troppo alta di microimprese e di lavoratori autonomi rispetto agli altri paesi industrializzati (25,4 per cento contro il 14,5 della media europea), ora quella quota si è ridotta di tre punti al 22,4 per cento, che resta comunque assai elevata.
La riduzione all’interno del mondo degli autonomi non è stata però omogenea, sono cresciuti i liberi professionisti (che però guadagnano meno), sia quelli con dipendenti sia soprattutto quelli senza dipendenti, per un totale di circa 250 mila unità, mentre sono diminuiti (sempre utilizzando i dati di Reyneri) gli imprenditori di 170 mila unità, e i coadiuvanti e collaboratori di 450 mila unità.
Costruzioni, industria, commercio, hanno tutti contribuito massicciamente alla riduzione, un piccolo segno più lo hanno invece i servizi di alloggio, la ristorazione e i servizi all’industria. I buoni risultati del turismo in questi anni hanno avuto il loro effetto sull’occupazione autonoma e assai più forte (quasi 300 mila occupati in più) su quella dipendente.
Difficile dire se questo cambiamento di pelle del lavoro autonomo ci consegni un’Italia più efficiente, visto che i dati sulla produttività continuano a non avere il segno più davanti. Certamente indica una trasformazione, che è vistosa nel commercio al dettaglio, con le vetrine vuote nelle strade commerciali delle città, la diffusione di catene dove chi lavora nei punti vendita è assai più spesso un dipendente che un imprenditore in proprio e il proliferare di gelaterie, pizzerie e altre infinite tipologie di locali dove si consuma cibo.
Dipendenti più poveri
Il lavoro dipendente ha seguito un itinerario diverso rispetto a quello autonomo. Dopo gli anni più acuti della crisi ha avuto un recupero che lo ha portato a fine 2017 a superare i livelli del 2007 e nei primi mesi del 2018 a crescere ancora. Il numero complessivo dei lavoratori dipendenti è passato in questi dieci anni da 16,9 a 17,7 milioni, con un aumento di 800 mila unità, ed è salito ancora a 18 milioni alla fine di maggio 2018. Andando dentro questi numeri tuttavia si trovano le conferme a quello che già sappiamo, ovvero l’aumento del precariato e una quota crescente di part time. Dei quasi 800 mila dipendenti in più a fine 2017 infatti, solo 270 mila sono a tempo indeterminato mentre 500 mila sono a termine, con l’instabilità professionale e di reddito che ne conseguono. Vedremo nei prossimi anni se le politiche messe in atto per ridurre la precarietà saranno efficaci o meno.
Ancora più clamoroso è l’aumento del numero dei lavoratori part time, che per la maggior parte dei casi non è volontario ma subìto. In questi dieci anni il numero dei dipendenti a tempo pieno è diminuito di 400 mila unità mentre quello dei dipendenti a tempo parziale è aumentato di un milione e 200 mila fino a raggiungere un totale di 3,6 milioni. 3,6 milioni di persone che hanno più tempo libero ma anche un reddito minore e che avranno una pensione più bassa.
In questi dieci anni è cambiata anche la struttura settoriale del lavoro dipendente, con una accelerazione verso la terziarizzazione dell’economia e, come abbiamo visto con il crollo degli autonomi, con una trasformazione del settore terziario. I buchi più grossi la lunga crisi li ha fatti tra i dipendenti del settore delle costruzioni, meno 380 mila; dell’industria, meno 180 mila (la crisi ha cancellato quasi un quarto della capacità manifatturiera del paese), e della pubblica amministrazione, meno 170 mila, uno dei tanti prezzi dell’austerità.
Nei numeri delle assunzioni della pubblica amministrazione e delle banche in questi dieci anni si trovano peraltro buona parte delle cause della disoccupazione intellettuale, ovvero dei troppi laureati che non riescono a entrare nel mondo del lavoro. Nel 2008 la Pubblica Amministrazione ha assunto oltre 125 mila persone, in grandissima maggioranza laureati e diplomati, nei sette anni successivi la media è stata di poco superiore a 70 mila: all’appello ne sono mancati 50 mila l’anno. Le banche hanno numeri più piccoli ma sono anch’essi significativi: nel 2008 i neoassunti sono stati oltre 25 mila, nel 2013 6 mila e 500, nel 2016 7 mila. Anche qui all’appello ne mancano circa 20 mila l’anno. Sommando le minori assunzioni della Pa e quelle bancarie, tra il 2009 e il 2016 si sfiorano 500 mila posti “pregiati” in meno.
Il nuovo lavoro
Passando all’altro piatto della bilancia, il nuovo lavoro dipendente, a parte i 60 mila in più in agricoltura, viene tutto dai servizi. Cresce la logistica con un aumento di 100 mila lavoratori che si occupano di trasporto e magazzinaggio, crescono gli occupati in ristoranti e alberghi di 280 mila unità, crescono i servizi alle imprese di 150 mila unità e crescono soprattutto i servizi alla persona, dalle palestre alle badanti, di 420 mila unità.
Nel complesso il numero dei lavoratori dipendenti è aumentato, ma non è il caso di brindare. Un lavoro più povero e meno qualificato, un esercito di autisti e magazzinieri, commesse, camerieri e badanti, ha sostituito bancari e statali, commercianti e piccoli imprenditori. Il declino della classe media, del quale tanto si parla, è tutto qui.